blogging no-journalism - tsmagazine.co.uk© & tsmagazine.net© tsmagazine.it 2004 - 2021
martedì 4 giugno 2013
La Grande Guerra dei Vinti Gli "italofoni" di Trieste ( Kustenland) e Gorizia caduti per l' Austria
TRIESTE Tornano a migliaia dalle prime linee della Grande Guerra, ma
non cantano Il testamento del capitano o Venti giorni sull' Ortigara.
Le loro canzoni hanno il ritmo cadenzato della marciae dicono cose
come:" Maledetta sia la sveglia/ sia la sveglia del mattino / si riposa
un pochettino / per marciare un poco ben ". Sono ragazzi che parlano
italiano, ma non portano il Tricolore: hanno per simbolo un' aquila a
due teste e vengono da fronti sconosciuti ai fanti del Piave: Ucraina,
Polonia, Montenegro. Orizzonti scorticati dal vento e dalla neve. Sono
loro, i triestini, i goriziani e gli istriani, quei soldati "un po'
così" che furono sudditi dell' Impero d' Austria fino al ' 18, e ora
rientrano a battaglioni da cimiteri ignoti, armata perduta senza
fanfare, con la forza di una memoria che riemerge dopo una rimozione
troppo lunga. Tornano su una valanga di documenti inediti, messaggi di
parenti, fotografie sbiadite, diari, registrazioni, lettere
dattiloscritte o calligrafate, cartoline d' epoca, cimeli,
onorificenze, medaglie portate da figli o nipoti. È successo che
improvvisamente, a un anno dal centenario del ' 14, Trieste svuota gli
armadi di famiglia e, in un impressionante outing collettivo, fa
giustizia del silenzio patriottico imposto sul passato austriaco della
città "italianissima", piena di piazze, scuole, vie e monumenti
dedicati a irredentisti, coloro cioè che passarono all' Italia, ma che
in guerra furono meno del cinque per cento dei maschi in età di leva. È
successo quando Il Piccolo, quotidiano di frontiera, ha rotto il tabù
sulla storia dei "vinti", parlando delle migliaia di caduti in divisa
austriaca rimasti senza monumento. Da quel momento, la redazione è
stata sommersa da lettere, telefonate e segnalazioni al punto da dover
aprire delle pagine speciali. Storie, quasi sempre, di una guerra vista
dalla parte "sbagliata": la disfatta di Caporetto vista come trionfo,
fanti in marcia al suono de La marcia di Radetzky, voci disturbate di
vecchi Schuetzen registrate dai nipoti, cartoline alla morosa da una
base navale di Pola pavesata di bandiere giallonere, truci racconti di
teste mozzate dai cosacchi sui Carpazi. «Hai già pensato, piccina cara,
ove andremo a dormire? - scrive, bramando una licenza, un soldato
istriano alla moglie - ciascuno a casa sua oppure tutti e due in una
stanza? Devi provvedere tu... In un hotel certamente no!». E ancora,
uno sloveno del Carso: «Ho avuto una brevissima licenza perché mi era
morta la moglie. Non mi sono nemmeno tolto la montura (divisa, ndr ),
le ho fatto la cassa e l' ho portata al cimitero. Zaino in spalla sono
ripartito subito verso Kozina per prendere la tradotta. Mio figlio
Toncic, quello di otto anni, non voleva staccarsi da me. Mi ha seguito a
piedi per un po' , poi, dopo Oscurus,è rimasto indietro». Poco o
nulla si sa di quei poveracci: né quanti partirono, né quanti morirono,
né dove sono sepolti. La ragion di Stato, dopo il ' 18, ha vietato ai
parenti la ricerca di quelle tombe e secretato il numero dei Caduti. Un
silenzio perdurato nel secondo dopoguerra, quando l' italianità non
doveva vacillare di fronte alla stella rossa di Tito. Ma ancora oggi,
mentre negli archivi di guerra viennesi puoi muoverti liberamente, i
fondi fotografici dello stato maggiore italiano restano poco visibili
su questi argomenti. Nel silenzio ufficiale, ora è la gente a muoversi.
Un noto medico consegna un pacco con i diplomi incorniciati delle
medaglie d' oro e d' argento consegnate a suo padre Mario Slavich dall'
imperatore. Ignoti lasciano in redazione lo spartito della Karl von
Ghega Marsch, dedicata al costruttore della prima ferrovia
Vienna-Trieste. Succede di entrare in uno studio radiografico e di
essere arpionati dal titolare che ti apre le segrete carte di una
famiglia ungherese di nome Felszegi, il cui capostipite fece meraviglie
con un cantiere che poi fu chiuso per ordine romano. Trieste si svela,
si addentra senza timori nelle sue radici multiple, fa i conti con un
dialetto farcito di germanismi, dove il sorso si dice sluc, la battuta
viz e la spinta ruc. Un mondo dove nulla è come appare: perché qui
puoi chiamarti Botteri ed essere di lingua-madre slovena, o fare
Biloslavo di cognome ed essere italiano nel midollo. Dopo le foibeei
forni crematori, ci sono altre tombe da scoperchiare per farei conti
con la storia. C' è l' Austria, la madre di tutte le rimozioni. Negli
archivi del Piccolo trovo un "nonno Willy fotografato con pipa all'
ospedale militare di Graz", la rocambolesca storia di uno "zio dal
grilletto facile nello See-Bataillon" o la lettera di un giovane che
promette scherzando alla madre di portarle in regalo "l' orecchio di un
serbo". Il diario di un istriano che finisce prigioniero dei russi e
se la spassa suonando il clarinetto nella steppa; ma anche l' orrore
dei prigionieri italiani restituiti dall' Austria a fine conflitto:
napoletani o lombardi che la patria lascia morire di stenti in un
lazzaretto per poi buttarli in fosse senza nome. È una tempesta
identitaria che fai conti con l' oggi: con la marginalità che aumenta, i
posti di lavoro che saltano, i treni cancellati, i cantieri chiusi, le
linee di navigazione svendute. Lo smantellamento, in definitiva, di
una dote che era stata Vienna a donare alla città. «È tempo che si
capisca che cinque secolie mezzo di storia austriaca sono più lunghi di
un secolo di italianità», sorride la studiosa Marina Rossi. I palazzi
sul fronte mare sono al novanta per cento viennesi.E poi c' è il
calendario, l' ecatombe che inizia un anno prima, nel ' 14. «Grazie,
grazie che mi ha permesso per la prima volta di ricordare mio padre»
dice commosso un ottantenne al telefono di Livio Missio, il
giornalista incaricato di smaltire quella montagna di documenti. «Molti
- racconta Missio - sono venuti di personae hanno pianto di
commozione». Il regista Franco Però sente «il sollievo di una città che
respira, si liberae recupera il tempo perduto»,e vede nella freschezza
di quegli inediti un grande testo teatrale in potenza. Roberto Todero,
che da anni fruga nelle trincee del Carso, dell' Isonzo e della
lontana Ucraina, ha già fatto il pieno di adesioni per un
pellegrinaggio ai cimiteri dimenticati dei Carpazi. C' è un ritardo da
recuperare, perché Trento è più avanti. È da anni che la provincia
sull' Adige si prepara senza reticenze alle celebrazioni: ricorda l'
impiccagione di Cesare Battisti, ma censisce i morti di parte opposta
con l' aiuto dei registri viennesi, delle anagrafie delle parrocchie
subalpine. A Trieste il risveglio è più tardivo. Troppo a lungo il
teorema della città-bastione controi barbari è stato strumento di
scontro politico e ha ritardato la riconciliazione di Trieste con se
stessa. «Finoa ieri- racconta Todero- l' Austria era evocata solo come
barzelletta o marcette militari semiserie», mentre i soldati triestini
erano degradati a polentoni, e chi ne celebrava la memoria deriso come
ridicolo austriacante. Con la storia in ostaggio, i musei cittadini -
quello della marineria in prima fila - sono rimasti elusivi pur di non
testimoniare glorie palesemente non italiane. La Venezia Giulia dice
poco di sé: non sbandiera di aver inventato l' elica navale o l'
esplorazione artica con largo anticipo sui norvegesi; non dice che qui
l' aviazione mondiale ha compiuto passi decisivi nel primo Novecento.
Resistono, in compenso, falsi storici come il Leone di San Marco
appiccicato dal Fascio al castello di una città che fu sempre
avversaria di Venezia. Da una mostra nel piccolo museo di Tarnova sul
Carso emergono foto inedite di un mondo prebellico e felice. La
stazione di Aurisina, bivio fra Trieste e Lubiana oggi dimenticato da
Trenitalia, si mostra nereggiante di personale e con ristoranti di
lusso sotto un ombrello in ferro stile Torre Eifel. Ed ecco alberghi e
ristoranti popolati di nobili viennesi o ricchi cecoslovacchi; belle
ungheresi in veletta portate a cavallo da stallieri serbo-croati. E poi
le cave di marmo, con più di tremila addetti e filiali a Londra,
Calcutta, Alessandria d' Egitto. «Il presidente Napolitano ci ha
esortato a rileggere la storia» dice il promotore Joze Skerk, «e noi lo
abbiamo ascoltato». In un tripudio di eroi italiani in bronzo e
pietra attornoa San Giusto oggia Trieste c' è solo una piccola lapide
ai Caduti in divisa austriaca, messa quasi "in castigo" sul retro del
castello. Pochissimi, tra cui gli Alpini, vi depongono corone d'
alloro. Il resto è silenzio. Un silenzio che sembra ritorcersi sui
vincitori, persino sui ragazzi di Redipuglia o di Oslavia, i cui
sacrari versano in stato di scandaloso abbandono. Nel più grande
cimitero di guerra d' Italia cammini tra erbacce e pietre sconnesse su
per scalinate dove il vento fa da padrone. PAOLO RUMIZ
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento