martedì 14 ottobre 2008

formaggio tritato vecchio avariato, elenco ditte.

Sullo scandalo dei formaggi avariati di Cremona, che all’inizio di luglio è finito su tutti i giornali, non tutto è stato detto. A cominciare dai nomi dei prodotti sospetti ritrovati sugli scaffali di negozi e supermercati. Le foto e i video della Guardia di Finanza, ripresi da “Repubblica” e da Rainews 24, mostravano prodotti caseari totalmente ricoperti da muffe, escrementi di topi, frammenti di plastica, all’interno di un’azienda di trasformazione a Casalbuttano, vicino a Cremona. Ai consumatori scioccati è stato raccontato nei dettagli il meccanismo con cui la Tradel e la Megal (le due aziende di Domenico Russo, chiuse nel giugno 2007) riciclavano formaggio andato a male per rimetterlo in commercio, invece di smaltirlo o destinarlo agli animali. Sono venuti fuori i nomi delle grosse ditte che mandavano il materiale scaduto alla Tradel (con qualche sbaglio, come nel caso della Granarolo, erroneamente inserita nella lista delle aziende coinvolte). Ma sulla destinazione finale di quei prodotti, pericolosi per la salute dei consumatori, nemmeno una parola.

Un silenzio imbarazzante che non ci ha convinti. E che ci ha spinti a lavorare ancora su uno scandalo dai troppi lati oscuri. A partire dal ruolo di molte grandi industrie italiane.



Elenco da brividi

Andiamo con ordine. Il prodotto avariato, una volta “ripulito”, veniva venduto al cliente finale, che lo metteva in commercio come formaggio fuso, simile alle sottilette, e come gran mix, confezioni di formaggio grattugiato. In alcuni casi, addirittura, i prodotti venivano lavorati senza fusione o pastorizzazione, e quindi senza alcuna sanificazione, con tutto il carico di potenziali rischi per chi li avrebbe consumati. Come se non bastasse, a volte un prodotto, se invenduto o scaduto, veniva rimandato alla Tradel che lo riciclava per la seconda volta.

Ma chi sono questi “clienti finali” che poi piazzavano i prodotti nei supermercati? Sono 27 le ditte principali, di cui 14 straniere, tra olandesi, francesi, austriache, spagnole, belghe e tedesche. Va chiarito che questi clienti finali erano inconsapevoli dell’origine del materiale caseario acquistato da Russo. Sarebbero, insomma, state truffate, anche se nei loro confronti è lecito ipotizzare per lo meno una superficialità di controlli, almeno per i casi in cui i formaggi arrivavano ancora col loro carico di tossine e muffe.

Tra i clienti italiani, che non risultano tra i fornitori, ci sarebbero: Prealpi Spa di Varese (che produce formaggi freschi, burro e mix di formaggi grattugiati a proprio marchio), Dalì Spa di Treviso (produttrice dei tortellini Dalì), Emilio Mauri Spa di Lecco (con i formaggi freschi e stagionati a marchio Mauri), e Integrus Srl di Treviso (che produce crespelle al prosciutto e formaggio, con marchio proprio).

C’è poi l’elenco delle aziende sia fornitrici che clienti della Tradel. Tra queste ultime la Lactalis (che in Italia commercializza formaggi Galbani, President, Invernizzi, Locatelli, Cademartori), Fallini Formaggi Srl di Reggio Emilia (che produce formaggi grattugiati con i marchi Fallini, Casa Emilia, Italiana Formaggi, Real Parma e Margaldo), e Sic.Al di Partinico.

Purtroppo l’elenco non si esaurisce qui. E continua con i fornitori della Tradel: Brescialat, Caseificio Castellan Urbano, Euroformaggi, Industria casearia Ferrari Giovanni, Frescolat, Giovanni Colombo Spa, Igor Srl, Industria agricola casearia Meneghini, Venchiarini società cooperativa, e Centrale del latte di Firenze, Pistoia, Livorno. Su quest’ultima, in particolare, gli inquirenti hanno trovato documentazione che testimonierebbe un atteggiamento “disinvolto”. La ditta, infatti, avrebbe inviato alla Tradel prodotti scaduti già da due mesi, in evidente stato di fermentazione.



Smaltiti... in tavola

Alla Galbani, gli inquirenti dedicano un capitolo a parte. Quello della Egidio Galbani Spa è stato uno dei primi nomi a finire sui giornali come possibile corresponsabile della frode al cui centro stava Domenico Russo. Coinvolte nelle indagini sono infatti due aziende della Lactalis Italia Spa: la Egidio Galbani e la Big Srl. La Galbani vendeva a Tradel prodotti semilavorati, per lo più scarti di produzione e residui di lavorazione. La Big forniva prodotti confezionati, invenduti o ritirati dal mercato perché scaduti o per problemi qualitativi o d’imballaggio. L’azienda ha smentito prontamente qualsiasi coinvolgimento nell’inchiesta e lo fa anche nell’intervista del suo amministratore delegato che compare in queste pagine. Dall’inchiesta, però, emergono aspetti inquietanti a carico di alcuni suoi dipendenti.

Due fatti, per esempio, sono documentati attraverso riscontri documentali e intercettazioni. Il primo dimostra come diversi prodotti, inviati nel 2004 e 2005 da Galbani a Tradel con etichetta cagliata a uso zootecnico, e dunque non utilizzabili per produrre formaggi destinati all’uomo, nel 2006 vengono inviati con lo stesso codice, ma con una dicitura generica, “cagliata”, che permette l’impiego del materiale anche per trasformazione alimentare. Un errore? Le ipotesi degli inquirenti non sembrano avvalorare questa sensazione e si basano su alcune mail di richiesta esplicita di cambio di etichetta, circolate in azienda. Non solo. A carico della Galbani c’è l’invio di croste di gorgonzola rinominate come “residuo di produzione lattiero casearia per trasformazione”. Già nel 2002, infatti, il disciplinare relativo al formaggio gorgonzola Dop stabiliva che la crosta non può essere destinata a prodotti commestibili, perché potenzialmente portatrice del batterio listeria, in grado di causare meningite in soggetti immunodepressi. Deve dunque essere smaltita, ma non può essere riciclata neppure per mangimi animali. Eppure, dai documenti acquisiti dagli inquirenti risultano arrivate alla Tradel decine di tonnellate di croste di gorgonzola, rinominate per aggirare l’obbligo di smaltimento.

Dal settimanale "Il Salvagente", luglio 2008

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