lunedì 5 agosto 2013

Il pullman dell'Irpinia e le tragedie in un Paese, l' italia che dimentica i morti di serie B.

I 38 MORTI DEL VIADOTTO E GLI ALTRI DRAMMI

"Erano popolino".
 Questa frase l'abbiamo sentita dietro al palco dal quale si stavano celebrando i funerali. 
A pronunciarla è stato il prete che aveva appena scandito i nomi delle 38 vittime del disastro della A16. C'era qualcosa di dispregiativo, non ce ne voglia il religioso, nel modo in cui è stata usata quella parola. Come se si stesse parlando di una sottocategoria di essere umani, il cosiddetto popolino, quelli non famosi, non colti, che vivono con poco in quartieri degradati, ai margini dell'Italia che produce e consuma.
C'è invece qualcosa di ineluttabile, nel progressivo arretramento di questa tragedia dalle pagine di tutti i giornali e dagli schermi delle televisioni. Chi si occupa di cronaca lo sa, è una regola non scritta. La rilevanza di un evento dipende sempre da una serie di variabili, che comprendono la sua collocazione geografica e il profilo sociale di chi ne è stato protagonista o vittima. E ogni tanto, anche il periodo dell'anno in cui è avvenuta.
Quelle persone semplici e dignitose sono morte in maniera orribile. Quando viaggiamo, ci viene normale distogliere lo sguardo dagli incidenti stradali. Non vogliamo che ci resti impresso nella memoria qualche dettaglio macabro. Il senso ultimo di questa tragedia è chiaro. Si è trattato di un gigantesco incidente stradale, con un numero di vittime abnorme. Non c'è mistero, non c'è una trama di incertezza che può far durare l'eco di questa tragedia nei giorni. Non c'è neppure l'eccezionalità dell'evento. Non un terremoto, non un naufragio come quello del Giglio, che capita una volta ogni secolo.
L'Italia è in vacanza, e sotto l'ombrellone non c'è tanta voglia di conoscere il come e il perché di questa macelleria stradale. È una cosa pesante, che deprime, nella stagione consacrata ad argomenti leggeri. Magari anche questa tragedia potrebbe spingerci a qualche riflessione sullo stato del nostro Paese. Ad esempio si potrebbe prendere quell'autobus forse guasto, certamente vecchio e con 800.000 (ottocentomila) chilometri alle spalle, a paradigma dell'anzianità del nostro parco di mezzi pubblici e privati addetti al trasporto di cose e persone, e farlo diventare uno dei tanti segni del declino italiano. Ma è tempo di svago, dopo un anno già deprimente di suo. Nessuno ha voglia di accanimento terapeutico.
L'opera di rimozione di questo strazio è già in atto, in maniera più o meno inconsapevole, veloce come quei funerali così caotici e affrettati, insultanti per i familiari delle vittime, utili solo a chi voleva dimenticare l'immagine di quelle lamiere contorte e delle persone che ne sono rimaste prigioniere. Le istituzioni spesso vanno a traino dell'onda emotiva generata dalla pubblica opinione, e così la valutazione dell'impatto sui media di un determinato evento diventa spesso il primo strumento per creare disparità tra le tragedie, anche solo per evitare le riflessioni che dovrebbero ispirare perché non si ripetano.
L'elevato numero di sciagure che avvengono su questo Paese dal territorio e dalle infrastrutture disastrate ha consentito la creazione di una serie A e una serie B delle disgrazie. I quaranta morti della frana di Giampilieri, in provincia di Messina non hanno insegnato nulla, come dimostra l'ineluttabilità con la quale viene trattato un angolo di Italia dove ogni volta che piove viene giù fango a palate. E nessuno ha mai sentito il bisogno d'indignarsi per la lentezza delle indagini sul disastro ferroviario di Viareggio, altro dramma estivo sparito in fretta dagli schermi e dalle prime pagine.
Le conseguenze del calo di attenzione che per proprietà transitiva si trasferisce sulle istituzioni non sono mai indolori. Nel novembre scorso una inondazione ha mandato sott'acqua Albinia, a pochi chilometri dalla Capalbio, oggetto di ogni cronaca estiva. Danni per milioni di euro ma solo tre morti, cosa vuoi che sia. Se ne parlò poco. Ad Albinia stanno ancora aspettando i risarcimenti, resi impossibili da una specie di percorso a ostacoli che sembra fatto apposta per scoraggiare la gente, e nell'attesa hanno continuato a pagare le tasse per esercizi commerciali che non hanno mai più riaperto.
I media forse possono dimenticare. Le istituzioni no. Adesso c'è questa tragedia senza mistero, che si appresta a sparire dal nostro orizzonte. C'è una comunità annientata, decine e decine di famiglie non abbienti che oltre al lutto devono affrontare la perdita economica. Non sono famosi, non abitano certo in un quartiere affollato di turisti, non sono motore di nessuna attività produttiva. Ma hanno bisogno. Non lasciare indietro nessuno, questa dovrebbe essere la regola, la ragione del nostro stare insieme. La solidarietà comprende anche la ricerca delle cause del disastro, con le conseguenze che se ne dovrebbero trarre in termini di prevenzione. Altrimenti, i nostri tanti drammi rimarranno sempre fini a se stessi, tragiche fatalità che tali non sono mai.
5 agosto 2013 | 12:24

fonte : corriere della sera 05 agosto 2013 pag 31 rubrica " lettere e opinioni"

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